martedì 25 novembre 2014

Viviane

Son due lustri che Viviane Amsalem sta tentando di ottenere il divorzio da suo marito Elisha. Da diversi  mesi la donna ha lasciato il tetto coniugale ed è andata vivere da un fratello sposato; non chiede danaro (è economicamente indipendente, dato che è parrucchiera), desidera solo separare il proprio destino da quello del consorte. Ma siamo in Israele, dove soltanto una specifica autorità (il tribunale rabbinico) può concederle quanto vuole, e ad una particolare condizione: il consenso del coniuge, che in codesto caso,  purtroppo, manca. La battaglia fra i due sposi e i difensori (per lui il fratello Shimon, per lei il fascinoso avvocato Carmel) si svolge in una piccola stanza bianca, con due tavolini e quattro sedie, sulla destra il cancelliere col computer, di faccia il tavolo coi tre giudici rabbini: è in detto claustrofobico palcoscenico che, anno dopo anno, si snoda il calvario della disperazione di Viviane, con un marito tetragono a ogni apertura, finanche dopo una settimana di carcere subita per non essersi più volte presentato alle sedute...

Si prova una singolare sensazione, a recensire un'opera come "Viviane" giusto nella giornata dedicata a stigmatizzare la violenza sulle donne. Forse perché si tende ad identificare quest'ultima con le percosse, lo stalking, le minacce. Forse perché non si associa uno stato democratico (presunto, verrebbe da dire) a cotali situazioni. Fatto sta che, in maniera diversa ma non meno valida dal bellissimo "Una separazione" (2011), questo film - opera terza dell'attrice Ronit Elkabetz, inoltre pannello finale d'un trittico iniziato da "Take a Wife"(2004) e proseguito con "Shiva" (2008) - descrive una situazione ed una mentalità, partendo dall'analisi di un caso singolo, con straordinaria pregnanza. "Il tempo perduto in questi procedimenti ha valore solo per la donna che supplica - ha dichiarato la Elkabetz - di tornare a vivere. Fino a quando non ottiene il divorzio non potrà mai ricostruirsi una famiglia e i figli fuori dal matrimonio non avranno riconoscimenti giuridici. Una donna in attesa di divorzio è condannata a una sorta di prigione".

Il miracolo compiuto dall'attrice-cineasta è quello di trasformare una pellicola in cui sembra non accada alcunché in qualcosa di vivo e avvincente. Merito d'una sceneggiatura densa e palpitante (scritta ancora da lei, assieme al fratello Shlomi, pure co-regista); di un cast strepitoso, capitanato tanto per cambiare dalla nostra; ma, su tutto, dell'intensità di alcune scene, girate con mano maestra, e della bellezza nobile ma non altezzosa, austera ma non rifuggente la femminilità - indimenticabile la sua apparizione con una fiammeggiante camicia rossa, le belle gambe nude, i capelli sciolti e accarezzati: una cosa, quest'ultima, equiparabile per una donna, ad un'impudica provocazione - della protagonista. Quando, infine, il marito s'acconcia ad acconsentire al divorzio facendole cadere nelle mani il "Gett", il foglio col suo consenso, pronunciando la frase "da ora sei permessa a qualunque uomo", tutto si riavvolge come in un incubo e la situazione ritorna al punto di partenza. E' allora che Elisha perde la calma, urlando contro i rabbini "Siete senza misericordia, ma vi toglieranno il potere, tribunale di merda". Interdetta all'ingresso in un tribunale per sei mesi, l'intrepida non si arrende: solo attraverso un'ennesima umiliazione, giungerà a un risultato che sa di sconfitta malgrado l'apparenza. Sì, è assai lungo il cammino che le donne dovranno ancora percorrere per ottenere dignità senza pagar lo scotto di amare, inique lacrime.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

VIVIANE. REGIA: RONIT E SHLOMI ELKABETZ. INTERPRETI: RONIT ELKABETZ, MENASHE NOY, SIMON ABKARIAN. DISTRIBUZIONE: PARTHENOS. DURATA: 115 MINUTI.

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