martedì 25 marzo 2014

The Grand Budapest Hotel

Europa, anni '30. Monsieur Gustave è il concierge -  in buona sostanza, pure, il direttore - del Grand Budapest Hotel, ubicato nell'immaginaria Zubrowka. Proclive a dare gioia, anche sessuale, a signore attempate e benestanti, eredita da una di loro, Madame D., un dipinto rinascimentale d'inestimabile valore. Ciò scatena l'ostilità del figlio della defunta, Dimitri, che accusa il nostro d'averla assassinata. Con l'aiuto di un giovanissimo neoassunto portiere immigrato, Zero, del quale è da subito divenuto amico e mentore, Monsieur Gustave s'impadronisce del quadro: in seguito, perseguitato dalla polizia, finisce in carcere. Ma Zero non si dà per vinto, riesce a farlo evadere; e, dopo infinite peripezie, salta fuori un nuovo testamento, ove risulta nominato erede universale giusto il nostro improbabile eroe...

Presentato in apertura della 64^ Berlinale, "The Grand Budapest Hotel" riporta all'attenzione il talento stratosferico e peculiare di Wes Anderson. Texano, classe 1970, il regista s'impose all'attenzione della critica con "I Tenenbaum" (2002), commedia ironica quanto appassionata, interpretata da personaggi simili a quelli dei fumetti però mossi da passioni da tragedia. La bizzarria survoltata si rivela chiave di volta, pure, del mediocre "Le avventure acquatiche di Steve Zissou" (2004), laddove il successivo "Il treno per il Darjeeling" (2007) pare stazionare fra manierismo e ritualità; assai meglio, invece, le cose andranno con lo stralunato ed elegante "Fantastic Mr.Fox" (2009, da un breve libro illustrato di Roald Dahl) e, soprattutto, col folgorante "Moonrise Kingdom" (2012), singolare storia d'amore fra dodicenni ch'è una sorta di summa di temi e ossessioni del cinema suo.

"The Grand Budapest Hotel" è esplicitamente dedicato a Stefan Zweig, scrittore austriaco che godette di grande notorietà tra gli anni '20 ed i '30. Mosso da un convinto pacifismo, nel 1933 egli assistette al rogo dei propri scritti da parte nazista; nel 1942, durante uno dei suoi viaggi in Sudamerica, si tolse la vita assieme alla seconda, giovane moglie, durante il carnevale di Rio. Chi abbia dimestichezza con l'opera sua, troverà nell'ultimo lungometraggio di Anderson echi d'un umanesimo un poco ingenuo, oltre alla nostalgia per la vecchia Europa che Zweig seppe così struggentemente esprimere nella sua autobiografia - uscita postuma nel 1944 - "Il mondo di ieri". La ratio del film (cioè il formato della proiezione) muta ben tre volte, per infine fermarsi sulla cosiddetta "academy ratio" - quella  del cinema classico, sino all'avvento del CinemaScope e del VistaVision. Spia, questa, del fatto che il cineasta di Houston abbia voluto rendere omaggio all'arte di Lubitsch e Wilder, filtrandola attraverso il suo abituale caleidoscopio di situazioni e d'interpreti. Ai veterani Bill Murray e Owen Williams si aggiungono, stavolta, nuovi ingressi, da Ralph Fiennes a Murray Abraham passando per l'esordiente Tony Revolori, impagabile nella raffigurazione finanche fisionomica dell'immigrato mai al riparo da razzismi d'ogni sorta. E' qui che s'affaccia una riflessione sull'oggi, sull'orrore per le frontiere e per la violenza di cui viene fatta oggetto qualsiasi persona che le attraversi fuori dai crismi legali. Dentro un lavoro, tuttavia, che - come di consueto, in Anderson - vuol essere soprattutto una riflessione sull'arte del narrare: e il labirintico Grand Budapest Hotel raffigura l'intento in luccicante metafora, con le sue millanta stanze, gl'immensi spazi d'attraversamento, i colori al contempo acidi e squillanti. Il regno ideale per un creatore di trame fra le più immaginifiche nella storia della settima arte.

THE GRAND BUDAPEST HOTEL. REGIA: WES ANDERSON. INTERPRETI: RALPH FIENNES, SAOIRSE RONAN, BILL MURRAY, EDWARD NORTON, JUDE LAW. DISTRIBUZIONE: FOX. DURATA: 100 MINUTI.

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